PIETRO LIBERI
Padova 1605-Venezia 1687
Venere cinta da amorini
olio su tela, cm 118,5×153,5
La fusione tra maniera veneta e centro italiana raggiungono in quest’opera di Pietro Liberi un seducente connubio. Se l’incarnato della donna discinta in primo piano, la sua esplicita sensualità, rimandano a capolavori da Tiziano a Veronese, la posa del corpo adagiato tra massicce architetture pare riecheggiare idee michelangiolesche. Anche i putti erculei che la circondano, testandone la sodezza delle carni, mostrano una consistenza ancora manierista, ricordando la varietà di esperienze del Liberi, che fu a Roma e a Firenze negli anni della formazione, prima di trasferirsi definitivamente nella città dove divenne celebre, Venezia.
Il soggetto è stato identificato da Fabrizio Magani, autore di uno studio sull’opera, in una Venere cinta da amorini, rilevando evidentemente il prevalente tono profano del dipinto, così caratteristico del suo autore. Si può tuttavia rilevare come a questa possibile interpretazione si unisca sicuramente una simbologia che suggerisce di riconoscervi, almeno parallelamente, una Allegoria della Carità. A questo soggetto, a cui effettivamente il Liberi conferisce una connotazione particolarmente sensuale e disinibita, sono da ricondurre la presenza nel dipinto del cuore e della fiamma accesa. I due elementi iconografici seguono i precetti del Ripa, che nella sua Iconologia del 1603 suggerisce che la raffigurazione della Carità “nella destra mano tenga un cuore ardente, e con la sinistra abbracci un fanciullo”.
A conferma di questa interpretazione, il pittore veneziano realizzò infatti un’altra versione giustamente identificata con questo soggetto dal Ruggeri. A differenza della nostra opera, la donna, raffigurata tra similari architetture pressappoco nella stessa posizione, rivolge la schiena agli spettatori, mentre lo stesso numero di putti le si affaccenda intorno.
Il Magani colloca l’opera negli anni sessanta del Seicento, “nel momento più alto” dell’attività del maestro di origine padovana.